Alcuni elementi dell'architettura greca nei capolavori dell'arte

Alcuni elementi dell'architettura greca nei capolavori dell'arte

Olimpia Gaia Martinelli | 19 feb 2023 9 minuti di lettura 0 commenti
 

Testimonianza della rinascita del capitello corinzio, per mero uso decorativo, ci è data dalla finta-architettura, come pittorica, realizzata nella loggia dell'Annunciazione del Beato Angelico, affresco del 1425 circa situato presso il Convento di San Marco a Firenze , Italia.

Nikolaus Weiler, Sinus Column , 2018. Scultura, legno su metallo, 37 x 7 x 4 cm / 0,30 kg.

Amedeo Modigliani, Cariatide in piedi , 1913. Olio su tela, 81 x 45. Collezione privata.

Esordiamo dicendo chiaramente come l’arte occidentale, così come la conosciamo oggi, non si sarebbe esplicitata nelle sue forme, odierne o precedenti che siano, se non avesse tenuto conto del modello greco, ovvero di quella prima civiltà che ha concepito l’arte come un mezzo, che, talvolta anche insolitamente indipendente dalle propagande della religione e del potere, si è prodigato per mettere in risalto la bellezza e la complessità del corpo umano, mediante un gusto estetico che è rimasto alla base di tutte le ricerche creative successive, sia figurative, che astratte, in quanto, anche chi esulta dalla raffigurazione formale, lo fa conscio della sua esistenza. Parlare dell’arte greca significa però spesso ripetersi e cadere nei classici cliché, ovvero nella narrazione dell’evoluzione degli stili e nella descrizione dei più grandi capolavori della scultura e dell’architettura classica ed ellenica. Pertanto, come spesso faccio, ho voluto esulare da un racconto stereotipato, che, per quanto affascinante, imprescindibile, ricco e determinante rischia di essere leggibile, con parole ed interpretazioni diverse, su svariati e molteplici siti internet, riviste, social media, libri, etc. Il mio proposito è, ancora una volta, quello di stupire il lettore, per interessarlo maggiormente, sperando, forse, di lasciargli effettivamente un piccolo bagaglio culturale resistente anche alle più svariate modalità di cancellazione della memoria insite nell’essere umano. Al fine di realizzare quanto detto ho preso tre elementi fondamentali dell’architettura greca, quali le cariatidi, i capitelli e le colonne e li ho ricercati in alcuni dei più grandi capolavori della storia dell’arte, opere che, oltre a mostrare l’eterno impatto del modello classico, ci forniscono nuovi punti di vista sul mondo greco. A proposito delle cariatidi, la conoscenza di queste figure, solitamente femminili, scolpite per essere usate a mo’ di colonna o di pilastro a sostegno di membrature architettoniche, viene generalmente associata agli esemplari di edifici più tradizionali, che, di dovuta provenienza greca, raggiungono la loro massima espressione nella loggia delle Cariatidi dell’Eretteo di Atene. Animando quest’ultimo contesto, possiamo immaginare come, senza nessun preavviso, le suddette donne, probabilmente curiose di conoscere le fattezze del mondo, decidano di abbandonare il loro gravoso compito, staccandosi dall’architrave e separandosi definitivamente l’una dall’altra, alla ricerca di una nuova, e magari più leggera, ragione di vita. Quanto detto ci riporta alla mente le solitarie interpretazioni delle cariatidi ad opera di Amedeo Modigliani, artista che si dedicò a questa tematica tra il 1912 e il 1914, realizzando sculture ed oli, che analizzarono la sovra menzionata figura in preda ad una sorta di crisi d’identità, in quanto essa pare essere ancora intenta a sorreggere un’architettura, che, ormai inesistente, non giustifica lo sforzo fisico della sua posizione. In aggiunta, le cariatidi di Modigliani si rivelano, per la prima volta nella storia, come forme di un’estrema morbidezza e rotondità, delle vere e proprie colonne di tenerezza, realizzate con linee essenziali e espressive, che le masse generalmente confrontano con i più noti, pacati e realistici modelli greci, anche sé, in realtà, l’artista italiano trasse maggiore ispirazione dalla statuaria etrusca ed africana.   Probabilmente, più legato al modello greco di cariatide è stato Auguste Rodin, proprio come si evincerebbe da The Fallen Caryatid Carrying Her Stone, scultura, che, successiva alle prime esecuzioni del soggetto, risalenti tra il 1871 e il 1877, è stata ideata mentre l’artista stava lavorando al progetto de Le porte dell’inferno, intendendola, per la prima volta, come una figura schiacciata e sconfitta dal peso di una roccia. Il protagonista dell’opera, il cui corpo possente è accovacciato, intende simboleggiare l’essere umano, che, in balia del peso del suo destino, continua a lottare dignitosamente e con coraggio, al fine di portare avanti il suo compito: provare a vivere. Tornando un attimo al contesto dell’antica Grecia, è bene mettere in evidenza come le cariatidi al maschile venivano indicate con l’appellativo di telamone, sinonimo di Atlante, figura mitologica volta a sostenere la terra.

Beato Angelico, Annunciazione del corridoio nord , 1440-50. Affrescare. Firenze: Convento di San Marco.

Passando dalle cariatidi ai capitelli, quest’ultima parte superiore della colonna o del pilastro ebbe, nella cultura greca, una funzione di prima importanza, poiché in esso venne sintetizzato il concetto di armonizzazione della colonna con la rispettiva trabeazione. Tale punto di vista trovò seguito nel Rinascimento italiano, periodo durante il quale l’esaltazione della bellezza e della lavorazione dei suddetti raggiunse apici mai visti prima, in quanto sul problema costruttivo si impose il soddisfacimento di un bisogno prettamente estetico. Per quanto riguarda gli ordini, non tutte le forme dei capitelli riscontrarono un medesimo successo nel suddetto periodo, tanto che il dorico e lo ionico interessarono quasi esclusivamente il Cinquecento, mentre il corinzio e il composito ebbero una più costante applicazione durante tutto il periodo rinascimentale. Prova del revival del capitello corinzio, a mero utilizzo decorativo, ce lo da la finta architettura, in quanto pittorica, realizzatasi nel loggiato dell’Annunciazione di Beato Angelico, affresco del 1425 circa collocato presso il Convento di San Marco a Firenze (Italia). Altre tre opere di quest’ultimo maestro, avente medesimo soggetto, confermano l’interesse per tale forma di “decorativismo”, mentre, per parlare delle colonne greche facciamo riferimento a un artista novecentesco: Giorgio de Chirico. Una colonna “antropomorfa”, le cui scanalature sono prettamente di derivazione greca, trova collocazione ne Le muse inquietanti, olio su tela del 1918, caratterizzato dalla presenza di tutte le tematiche metafisiche che hanno contraddistinto l’indagine figurativa del maestro italiano, quali: i manichini, le citazioni classiche, la piazza deserta e i simboli della modernità, come, in questo caso, le fabbriche, volte a creare un inquietante ponte tra passato e presente. Infine, l’analisi dell’operato degli artisti di Artmajeur mi ha portato ad una nuova indagine, volta a interpretare le rovine greche del passato colte dagli occhi di pittori contemporanei quali, ad esempio, Fikret Özcan, Yury Peshkov e Muriel Cayet.

Zahar Kondratyuk, Antique head and column , 2022. Acrilico su tela, 160 x 100 cm.

Fikret Özcan, Pergamon-2 , 2017. Acquerello su carta, 40 x 27 cm.

Fikret Özcan: Pergamo 2

L’accurato acquerello di Özcan svela, in molto alquanto poetico, le rovine di un tempo che fu, volto a rimembrarci, attraverso il nefasto passare degli eventi, la grandezza di un’antica Grecia, che ci viene presentata per “sineddoche”, ovvero mostrando quello che resta della ricca e potente città della Mesia, Pergamo, oggi situata a nord ovest di Bergama, precisamente nell’odierna Turchia. Questo punto di vista mi fa risuonare in testa le parole di Gustave Flaubert, il quale individuò nelle rovine uno strumento magico, capace di “far sognare e donare poesia a un paesaggio”. Se il noto scrittore francese espresse in parole tale pensiero, volto anche a comunicare un fascino intrinseco carico di ambiguità, incompletezza e precarietà, insito nell’essenza stessa dei resti archeologici, i pittori e gli incisori settecenteschi lo anticiparono, promuovendo l’estetica delle rovine, stimolo culturale che, oltre ad invadere le opere d’arte, dilagò nelle ricerche archeologiche e nei viaggi dei giovani rampolli dell’aristocrazia europea, volti alla scoperta delle più celebri “macerie” della civiltà. In quest’ultimo contesto figurativo, alcuni capolavori arrivarono anche ad includere la figura umana, che, accostata ai resti di un tempo grandioso, soleva evidenziare tutta l’insignificanza del sovra menzionata specie. Esempio di quanto detto ci è dato dalla sanguigna, titolata L’artista commosso dalla grandezza delle rovine antiche (1778-80), ad opera di Johann Heinrich Füssli, in cui un uomo si commuove di fronte ai ruderi di un'altra antica e splendida civiltà: quella romana. Infine, vi invito a contemplare l’opera dell’artista di Artmajeur facendo risuonare nella vostra mente le iconiche parole del filosofo Stefano Zecchi: “La vita possiede un’inestimabile pulizia morale: tutto finisce. Talvolta ha la generosità di concedere ancora qualcosa prima che tutto venga spazzato via: le rovine. Resti del passato che testimoniano il cammino della storia”.

Yury Peshkov, Tempio di Apollo. Cipro , 2022. Olio su carta, 40 x 30 cm.

Yury Peshkov: Tempio di Apollo. Cipro

I resti del tempio di Apollo appaiono, nella studiatissima inquadratura pittorica di Peshkov, come la visione di una specie di modella, che, sapientemente diretta dall’artista, porta il mento in alto, per scrutare con fierezza l’orizzonte. Proprio allo stesso modo, le rovine dell’antico luogo sacro mostrano tutta la loro forza, sicurezza e determinazione perché, nonostante siano giunte sino a noi soltanto in maniera parziale, esse hanno avuto il privilegio di perdurare al passare delle epoche, dei costumi e degli avvicendamenti storici nel più impassibile dei mutismi. A proposito del sito ritratto dall’opera, è importante precisare che esso si tratta del tempio di Apollo Hylates, il quale, situato a ovest dell’antica città di Kourion, fu uno dei principali centri religiosi dell’antica Cipro, all’interno del quel Apollo era venerato in qualità di dio dei Boschi.  Infatti, proprio con l’aggiunta dell’appellativo Hylates si faceva riferimento ad una divinità, che, esclusivamente venerata sull’isola di Cipro tra il III secolo a.C. e il III d.C., fu solo successivamente assimilata al più ufficiale dio greco Apollo. Infine, ciò che è ad oggi visibile del tempio dedicato a quest’ultimo è frutto, in parte, dei restauri del primo secolo dopo Cristo, mentre, se si vuole fare riferimento alla struttura originaria, essa era costituita da un monumento circolare, un altare arcaico e un tempio, che furono successivamente ampliati e arricchiti in epoca romana. Pertanto, l’opera dell’artista di Artmajeur favorisce, come ben si evince da quando sopra indagato, lo studio delle antiche civiltà, nonché la diffusione dell’amore per la cultura e degli interessi di natura archeologica e storico-artistica.

Muriel Cayet, Temple bleu , 2011. Pittura, 20 x 20 cm.

Muriel Cayet: Tempio Blu

L’antico edificio sacro raffigurato nel dipinto di Cayet ci ricorda, colore a parte, le fattezze del Tempio della Concordia, esempio di dorico maturo, che venne innalzato nella Valle dei Templi di Agrigento (Italia) nel 430 a.C. A dire la verità, però, quest’ultimo giudizio cromatico risulta essere alquanto superficiale, in quanto, nonostante sia indiscutibile il fatto che la predominanza del blu di Cayet risulti essere piuttosto surreale e inverosimile, è d’obbligo rivelare come, probabilmente e originariamente, il colore blu faceva effettivamente parte della suddetta architettura. Infatti, secondo una delle più recenti ipotesi degli esperti, l’attuale tinta dorata della pietra era, antecedentemente, celata da un intonaco bianco, che si disponeva su tutta la struttura ad eccezione del fregio e del timpano decorati in blu e rosso. Questa rivelazione Pop è però forse ridimensionata dall’atteggiamento che i greci ebbero nei confronti della cromia del cielo, in quanto essi faticarono ad identificarla con una specifica parola. Ad esempio, se facciamo riferimento ad Omero, nelle sue opere appaiono soltanto quattro colori: il bianco, il grigio, con sfumature fino al nero, il rosso e il giallo-verde. È necessario mettere in evidenza però, che, all’interno della cultura greca, c’era la più generale predisposizione ad indicare e fare riferimento alla luminosità piuttosto che alla tonalità, tanto che non esistette una sorta di “avversione” contro il blu, ma un più semplice disinteresse nel definire i colori in modo chiaro ed univoco. 

 

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