È possibile spaventare con l'arte?

È possibile spaventare con l'arte?

Olimpia Gaia Martinelli | 28 ott 2023 8 minuti di lettura 1 commento
 

Il successo di Halloween, ma anche, ad esempio, dei film horror più comuni, sta nel fatto che il suddetto stato di godimento può essere vissuto tranquillamente, in quanto non comporta alcun pericolo concreto, poiché lo spavento è, per l'occasione, chiaramente simulato...

Salvador Dalì, Il volto della guerra, 1940. Museo Boijmans Van Beuningen, Rotterdam.

Perché ci piace spaventarci?

Al fine di rispondere alla domanda posta nel titolo basta fare riferimento alla certezza della scienza, disciplina che ha reso noto come nel momento in cui proviamo paura l’amigdala attiva modalità reattive rapide e primitive. Quest’ultime, che si combinano con ormoni pronti a favorire uno stato di allerta, sono capaci di aumetare la produzione d’insulina e il livello degli zuccheri nel sangue, oltre a rendere il nostro respiro più affannoso, far battere velocemente il nostro cuore, dilatare le nostre pupille e farci sentire constantemente sulle spine, proprio come se fossimo sempre pronti a scappare. In realtà, però, è bene rendere noto come gli ormoni rilasciati nelle sopra menzionate situazioni, tra cui l’endorfine e la dopamina, le quali, in caso di emergenza dovrebbero alleviare il dolore, fungono anche alla sperimentazione di uno stato di piacere e di eccitazione, intrinsecabilmente legato ad una circostanza di vicinanza con il pericolo. 

Di conseguenza, il successo di Halloween, ma anche ad esempio dei più comuni film horror, risiede nel fatto che il suddetto stato di godimento possa essere serenamente sperimentato, poiché esso non implica alcun pericolo effettivo, dato che lo spavento è, per l’occasione, palesemente simulato. Allora, una volta svelato il vincolo che tiene legati paura e piacere, vorrei dilettarvi proponendovi un racconto del terrore, narrato da alcuni capolavori della storia dell’arte, che, osservati l’uno dopo l’atro, potrebbero effettivamente costruire una storia a tema di Halloween. 

Théodore Géricault, Le teste mozzate, 1818.

Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, 1620. Olio su tela, 158,8×125,5 cm. Napoli, Museo nazionale di Capodimonte.

Spaventare con l'arte...

C’era una volta, e per una volta intendo dire non so né dove né quando, un solitario e privo di corpo volto “umano”, avente fattezze decisamente imponenti e spaventose, la cui pelle scura e corrugata si esprimeva in una enigmatica smorfia di dolore mista a disperazione. Spero adesso che la vostra pelle possa accapponarsi e che una goccia di sudore si disponga a percorrere la vostra fronte, al solo pensiero di trovarvi davanti il suddetto essere non identificato, avente, all’interno delle due orbite oculari e della bocca, due teschi inseriti dentro, che, a loro volta, presentano ulteriori figure mortuarie nelle loro cavità. 

A completare questa visione adrenalinica c’è la presenza dell’animale del peccato per eccellenza, il serpente, figura inequivocabilmente legata all’aldilà di Lucifero, che si prodiga, in diversi esemplari, ad infliggere dolore al volto in questione, facendogli assaggiare le lame dei suoi denti. Come vi avevo anticipato, questo non è il set di un film horror, ma un capolavoro della storia dell’arte, ovvero Le visage de la guerre (1940) di Salvador Dalì, concepito per spaventare l’uomo di fronte ad una triste realtà della sua esistenza: la continua ed eterna minaccia della guerra. Il racconto spaventoso dell’arte potrebbe seguire, diventando sempre più truce, citando Théodore Géricault, anch’egli “appassionato” di lugubri teste, proprio come si evince da The Severed Heads (1818). 

L’opera in questione è ancora più impressionante, in quanto rappresenta, su sfondo nero e in penombra, due teste umane recise, che, adagiate a mo' di natura morta su di un telo, fanno toccare il collo al fruitore, che si vuole assicurare di avere ancora la sua testa ben attaccata. In aggiunta, è bene rendere noto come il racconto del terrore possa spingersi in questo caso oltre la natura del soggetto esplicitato, per insidiarsi anche nelle sue modalità di realizzazione, in quanto è noto come l’artista stabilì il suo studio nei pressi dell’ospedale, dilettandosi a osservare i malati, i moribondi e i cadaveri, tanto che alcuni ipotizzano come egli avesse anche il “vizio” di conservare nel suo studio pezzi di corpi umani, talvolta prelevati dal “teatro” della decapitazione. Quest’ultimo cruento, sanguinario e spaventoso evento è pronto a terrorizzarci nell’immagine della decollazione più nota della storia dell’arte, che, per mettervi paura, prima descriverò, e solo in un secondo momento paleserò nel titolo e nell’autore. 

Un uomo, ebbro in seguito alla degustazione di un banchetto, si trova nudo e disteso su di un letto, convinto di poter giacere con una bella fanciulla a lui ben disposta. L’amplesso amoroso si trasforma però in uno spargimento di sangue, in quanto la ragazza in questione, dopo averlo derubato della sua spada, si prodiga a tagliargli la gola, aiutata da una serva che trattiene le braccia del soldato. È proprio quest’ultima scena violenta ad essere stata fissata sul supporto pittorico, tanto che lo spettatore resta pietrificato a guardare la decapitazione, suffermandosi sugli utlimi attimi di esistenza del volto maschile e sulla spada che ne trafigge il collo generando rivoli di sangue, pronti a schizzare l’aria e a macchiare il materasso. 

Allargando lo sguardo in modo progressivo, fanno da “sfondo” a tale resa della morte le mani delle due donne, successivamente identificate nei loro volti pronti a palesare l’energia impiegata nel fatale sforzo. Se adesso avete paura di tornare a casa dalle vostre mogli forse ho raggiunto lo scopo del mio racconto, anche se, in realtà, la scena di violenza domestica in questione fa parte dell’iconica Giuditta che decapita Oloferne (1620) di Artemisia Gentileschi, opera dov’è palese il meccanismo di rivalsa sulla prepotenza maschile, da ricondursi all’episodio in cui la pittrice italiana venne violetata dal collega Agostino Tassi. 

Passando dalla decapitazione a tecniche di “punizione” più moderne, possiamo infine giungere a metà degli anni Sessanta, pensando di vedere davanti ai nostri occhi una sedie elettrica vuota, posta all’interno di un ambiente spoglio, in cui è presente un piccolo tavolo di legno e un cartello con scritto silenzio. La luce che trova collocazione nello spazio vuoto del pavimento, posto proprio di fronte alla sedia, pare quasi invitarci a prendere posizione, facendoci dimenticare della pericolosità del contesto, tanto da farci intrappolare per sempre. 

Queste sono le mie impressioni a proposito dell’ultima spaventosa opera analizzata, ovvero Electric Chair (1964) di Warhol, capolavoro facente parte della terrificante serie Death and Disaster, ricca di soggetti volti a trarre spunto da disgrazie, quali incidenti stradali e suicidi illustrati dai giornali. In questo contesto Andy voleva dimostrare come quando si vede una foto orribile più e più volte, in realtà essa perda il suo effetto, concetto che potrebbe essere riutilizzato per rileggere il mio racconto, dimostrandosi alquanto impassibili di fronte all’inesorabile ripetersi del terrificante concetto di morte. Infine, il racconto, forse ormai non più spaventoso, continua nelle opere degli artisti di Artmajeur che seguono, quali quelle di Vaxo Lang, Hanna Melekhavets e Bryah.

MORTE E SPETTATORI (2021)Dipinto di Vaxo Lang.

"MORTE E SPETTATORI" di Vaxo Lang

L’iconografia della Pietà era inizialmente realizzata mediante il riferimento ad uno schema rigido, in cui il busto eretto di Maria si contrapponeva al corpo orizzontalmente irrigidito del Cristo, fattezze ben rese, ad esempio, dalla Pietà del Perugino. A partire dalla lezione di Michelangelo, invece, la figura di Gesù venne innovativamente adagiata con morbidezza sulle gambe della Vergine, cosa che apportò alla scena una straordinaria naturalezza, volta ad unire i due personaggi in un momento di toccante intimità. Vaxo Lang, artista di Artmajeur, fa propria le lezione del maestro italiano, portando ulteriore flessibilità al corpo morente raffigurato, adesso osservato da una ricca folla di spettatori, che si ammassano infinitamente all’interno di un paesaggio definito solo dal cielo. L’opera espressionista in questione rivela, mediante il suo esplicito titolo, il suo principale intento: quello di “celebrare” la morte come un’evento conoscitivo, ovvero al quale accorrere per divenire più consapevoli. A proposito dell’artista in questione, Vaxo Lang, classe 1993 e originario di Tbilisi (Georgia), rilsuta essere alquanto affascinato da tematiche legate alla dipartita, le quali spesso lega a punti di vista alquanto introspettivi, capaci di unire la sofferenza fisica a quella mentale. 

"TESCHIO" di Hanna Melekhavets

Sul supporto pittorico c’è solo il primo piano di uno scheletro, la cui anatomia viene ben definita dal chiaro scuro, che scava le cavità delle ossa del cranio con cromie che vanno dal blu, al marrone, sino al nero. Il soggetto in questione è verosimilmente inanimato, cosa che ci fa ricordare del più “vivace” esemplare realizzato da Van Gogh, catturato mentre è intento a fumare una sigaretta nel capolavoro titolato Skull of a Skeleton with Burning Cigarette (1885-86). Quest’ultima opera di piccole dimensioni risale probabilmente all’inverno del 1885-86, periodo in cui venne concepita per criticare le pratiche accademiche più conservatrici e “noiose”, inclusive dei più tradizionali studi degli scheletri per comprendere l’anatomia umana, ai quali l’artista ripose ironicamente accendendo il fumo di una sigaretta. A proposito di Hanna Melekhavets, invece, la pittrice contemporanea con sede in Polonia dimostra di essere alquanto fedele alle tecniche e ai linguaggi tradizionali, volti ad esplicitarsi in opere che riflettono sull’esistenza, oltre che sul mondo, sull’infinito e sull’equilibrio tra opposti.  

LA MORTE (2022)Fotografia di Bryah.

"LA MORTE" (2022) di Bryah

L’artista di Artmajeur dichiara di aver raffigurato la morte per queste ragioni: “È partendo dalla morte come punto di partenza che l'umanità ha forgiato regole, credenze e concezioni, come quelle dell'inferno, del paradiso, del limbo, dell'antro, o di qualsiasi altro termine si scelga di utilizzare. Ispirato da questa concezione, ho creato una serie di immagini, tra cui questa in particolare, intitolata "La Morte", che cattura l'aspetto morboso della morte, la sua essenza oscura e fredda, la paura di morire.” A questo punto mi sento di mettere in chiaro come la morte in questione possa effettivamente assumere anche la peculiarità della vita stessa, perché è proprio per la paura della fine, che ci prodighiamo a creare per rimanere per sempre sulla terra. Esempio celebre di accostamente tra morte e vitale creazione artistica, che ha reso le fattezze del suo artefice immortale, è l'Autoritratto con la Morte che suona il violino di Arnold Böcklin, opera che raffigura il pittore con tavolozza e pennello tra le dita, mentre viene interotto dalla signora morte che impone la sua presenza suonando un violino con una corda sola. Quest’ultimo dettaglio ha il compito di rievocare il mito greco delle tre parche, divinità che avevano effettivamente il compito di filare e recidere la vita degli uomini, proprio come se fosse un filo. 

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