Aggiunto il 24 ago 2007
DOMENICO ASMONE, DIALETTICO PITTORE DELLA PASSIONE
Pier Francesco Listri
Ecco un artista coerente, mai monotono; sicuro del suo fare, dalla pittura profondamente riconoscibile, il che è dei pittori autentici.
Giovane di anni e relativamente giovane di professione, Domenico Asmone, non ha seguito scuole accademiche, ama dipingere oggi in grandi formati, appartiene - ma con un gotha assai originale - al non figurativo, anche se ignora l’astratto. Non si è mai cimentato con la scultura, anche la grafica per ora non lo interessa. Il segreto del suo dipingere - a parte il primato assoluto dei cromatismi - consiste nel ritenere conclusa un’opera quando in essa la casualità ha ceduto compiutamente il campo alla causalità.
Ma ci torneremo.
Le origini. Il suo antico sangue è calabrese. La nascita cade a Bologna; dopo la prima infanzia e per sempre, Pistoia.
Pistoia è la città che possiede, in relativo, il maggior numero di pittori d’Italia: ma non è questo che fa la differenza. Sono gli infiniti succhi che da questo felice luogo Domenico ha assorbito, a dare consistente sostanza a un retroterra d’artista, anche - forse di più - se si tratta di un pittore non figurativo.
Il retroterra più ovvio è quello dei succhi figurali, di pittura e scultura coeva. Ecco allora il mitico etrusco-classicismo di Jorio Vivarelli; le magie pittoriche di Roberto Barni, la suprema modernità di Marino scultore e anche pittore.
Fuori città, nel felice territorio che va dalle montagne alla veracità pesciatina, agli estri liberty montecatinesi, tanti nomi: da Ardelio Mucci a Roberto Giovannelli, ai componenti con Barni della cosiddetta “scuola di Pistoia” Umberto Buscioni e Gianni Ruffi.
Gli scomparsi ma artisticamente vivi Forese Lensi, Franco Bovani, Fernando Melani e Remo Gordigiani. C’è da queste parti il “graficismo” di Massimo Biagi, che ne ha dettato il manifesto; e poi l’espressionista Flavio Bartolozzi, la fantasiosa Cristina Palandri, il robusto e fortunato Salvatore Magazzini, lo scultore Enrico Savelli, l’altro scultore di matrice etrusca Luigi Galligani, e Valerio Gelli e Giuseppe Gavazzi dalle vaghissime ceramiche.
Chiudiamo il panorama non davvero esaustivo, per evitare l’uggia dell’elenco, ma non senza ricordare un altro pittore pistoiese, Marcello Lucarelli, artista autentico non troppo tempo fa celebrato in una grande antologica a Monsummano, che qui citiamo perché è presso di lui che Domenico Asmone ha fatto un provvisorio apprendistato, più con la curiosità del neofita che con la diligenza dell’allievo.
Tanti pittori e scultori dunque. I quali si guardano, se si è artisti, ma prima si respira aria, edifici, figure, paesaggi. E la Pistoia dove Asmone è cresciuto ne è più che ricca.
La Pistoia di Cino che corre, nelle lettere, fino alla finissima Gianna Manzini, e a Piero Bigongiari, nel cinema alleva la sensibilità di Bolognini, nell’architettura l’etrusco ed europeo Giovanni Michelucci.
Il resto è affidato alle antiche pietre: il romanico del Duomo, di Sant’Andrea, di San Giovanni Fuorcivitas, il tocco barocco di Santo Spirito, il fregio leggendario, nella cinquecentesca terracotta smaltata, dell’Ospedale del Ceppo, i supremi pergami di fra Guglielmo da Pisa, di Giovanni Pisano, di Guido da Como. Poi la Pistoia longobarda della Sala che corre fino alla risorgimentale Villa e Museo di Celle, del mecenate Gori.
Queste le credenziali, o l’aura di un pittore come Domenico. Il quale, curiosamente, da quasi tutte queste seduzioni pare prendere le distanze con intenzionale nettezza, ma che, certo, operano nelle più segrete euritmie della sua pittura.
Destino comune, Asmone iniziò a dipingere figurativo. E nel figurativo preferì il paesaggio, anche se alcune sue antiche nature morte, portano squillanti cromatismi, di una nettezza smaltata e di forte sapienza compositiva.
Il che accadeva poco più che appena dieci anni fa. Dipingeva Asmone, e incontrava consensi, tanto da vincere numerosi premi, non solo nelle più frequenti “estemporanee” en plain air. Provetto disegnatore, riusciva benissimo nei tanti ritratti di quegli anni. Amava sperimentare più materiali: usava la sabbia, il cemento, le tecniche miste. Il panorama pistoiese, specie quello di collina - montagna, era il più frequente nei suoi paesaggi, che non avevano abbaglianti luci solari, ma semmai, quasi sempre, un colore prevalente.
A quel tempo amava i piccoli formati, i quadri, confessiamo questo vizio della tradizione tutta toscana, cosiddetti “da salotto”.
Eppure certe tele di allora, quei gerani rossi, quelle verdi persiane, quesi suoi limoni su uno sfondo di paesaggio montano, hanno un piglio e un furore risolto, di incredibile suggestione.
E’ difficile seguire, senza errori o illazioni, l’itinerario evolutivo intimo di un artista.
Sta di fatto che, non d’un tratto, per capriccio di novità, ma quasi insensibilmente le forme e i colori sulla tela gli si mutarono.
Sentì che quei modelli invitavano a una semplicità ripetitiva, erano troppo sostenuti da una sapienza tradizionale. Non lasciò il reale da rappresentare in nome del partito astratto. Asmone non è mai stato un astratto: i giochi geometrici della mente che diventano linee e spazi, vuoti e pieni non lo hanno mai attratto.
Sentì invece la necessità di dover destrutturare la figurazione del reale in qualcosa che non fosse il reale ma ciò che esso più intimamente esprime.
Osservando la successione temporale delle sue tele si assiste come a un tellurico, ma calmo, allentarsi delle prospettive, perder identità dei cieli e degli edifici: il paesaggio andava divenendo un inedito mosaico dove il gioco del visibile non coincideva più con le abitudini dello sguardo.
Allora Asmone ripercorse in sé - come accade ai veri artisti ricercatori - quello che l’arte figurativa ha compiuto nel secolo appena lasciato. Nulla di libresco, ma un processo di necessità ottica e di logica costruttiva. I suoi ultimi paesaggi dal vero tengono certe densità volumetriche di Soffici, pittore che aveva coniugato le case toscane con l’urgenza cubista.
Di lì, quasi per forza, il recupero di Cezanne, grande padre della destrutturazione delle forme, pur per via di volumi costruiti nella loro geometrica identità di coni, cilindri, cubi. Guida Asmone un nuovo gusto del linguaggio delle inquadrature, il bisogno di dipingere su superfici più grandi e, infine, il finale e supremo predominio del colore.
Curiosamente, fino a ieri, certi quadri informali di Asmone serbano nella parte alta uno spazio bianco quasi di cielo: come se quel cielo dovesse proteggere e completare un sottostante paesaggio che non c’è.
Così si arriva al vittorioso dipingere di oggi, su cui Domenico è avarissimo di concessioni critiche, di arzigogoli intellettuali.
Oggi Asmone dipinge grandi tele, quasi sempre con un fondo fiammeggiante ma talora di bronzeo nitore, sulle quali si accampano e costruiscono ritmo e respiro pittorico, una serie assiepata di tassellature, ora monocrome, ma con sapientissime scalature, ora facendo incontrare colori diversi, ma con avara varietà, e, talvolta, ferendo l’insieme (ferendo lo sguardo di chi osserva, ma incidendo anche nella stessa composizione) con una breve linea, una vampata, un graffio cromaticamente alieno.
A immediatezza di sguardo, ma anche all’osservazione approfondita, questa pittura non è mai monotona, ma appare come una serie infinita di variazioni su un tema ( Asmone giovane voleva scegliere la carriera di pianista), ricca di straordinaria coerenza. Come una astratta scacchiera dove il gioco di chi guarda è guidato dalla sommossa, compatta, e sempre variata, stipatezza dei tasselli costruttivi e dal loro riverbero cromatico, vera lingua parlante di questa pittura.
Che cosa sono queste “superfici volumetriche”, se ci si passa l’ossimoro, sono un muro, uno schermo, un velario? Qualcosa che rimanda a un al di là, il segno della siepe leopardiana, oltre la quale sono “interminati spazi e profondissima quiete”, oppure rappresentano solo se stessi, una sorta di esistenziali “selciati verticali”?
In Asmone, si direbbe, il colore è tutto. Eppure è l’idea costruttiva, la solidità di qualcosa di edificato seppur unidimensionale, che imprime significato e dà forza e suggestione a questo dipingere.Via via che la tela si dispiega nulla qui è affidato alla casualità, Asmone è più ricco di certezze che di estri. Edifica nel dipingere. Si spiega ora perché egli scelga partiture di dimensioni sempre grandi: perché il suo odierno dipingere prevalentemente con la spatola richiede spazi fisici ( ed emozionali ) di opportuna larghezza.
Mai pesante, e mai banale, Domenico è un pittore estremamente robusto che vuole comunicare una forte carica di energia, e una passione dell’occhio, se così si può dire, che sappia leggere la sua ben costrutta grammatica figurale. Non suscita improvvise emozioni, ma il suo pedale denso e agglutinante invita a discese emotive non provvisorie: propone un appassionato viaggio mentale.Certo, il colorire ( non il colore ) è protagonista. Eppure la fortissima forza-passione che queste tele trasmettono, è come corretta da un aggiuntivo e decisivo concetto che deve fare i conti con l’elemento costruttivo che è alla base del quadro. Svolta e condotta intenzionalmente su una superficie unidimensionale, questa pittura richiama sensi volumetrici, spazi occupati, territori abitati dal colore come smerigliati accampamenti di esistenze invisibili.
Si osservi. Basterebbe aggiungere o togliere una tessera a questo mosaico e l’effetto perderebbe la sua precisa necessità. “Io credo che un mio quadro sia finito quando dalla casualità di partenza sono arrivato alla casualità del necessario”, dice l’artista ed è definizione perfetta, che abbiamo ricordato in principio di queste note.
Tanta coerente capacità di ispirazione e di realizzazione, inviterebbe a ripercorrere, con non banale curiosità, l’itinerario che l’artista compie dalla tela vuota fino all’opera compiuta.
Ecco allora Asmone al lavoro: certe volte egli parte dallo stendere un fondo omogeneo e compatto di colore che come la base della scena su cui deve accamparsi la frase pittorica. Certe volte invece, l’ideazione parte da un centro e per via centrifuga si dispiega con misurata armonia di compasso, via via, fino a dove e quando il tutto tiene e la figurazione acquista valore espressivo. Curioso che, poi, all’occhio di chi osserva, quella nascita centrifuga inviti a un’ inversione: spinga cioè e richiami un gesto centripeto, a correre e tornare con l’occhio sempre al centro di un insieme, il che dà nerbo ed energia al tutto.
Non è un caso tuttavia che perlopiù l’artista si rifaccia al colore ancge nei titoli delle sue opere: “Cromatico”, Paesaggio cromatico”, “Cromatico bianco”, “Cromatico blu”.
Con i suoi diversi spessori, con le sue sfumature, con il suo materico addensarsi sulla tela, con la dialettica figurale di certi accostamenti, questo totale cromatismo parla un suo linguaggio, grammatica e sintassi originali e rigorosamente coerenti.
Considerata per sezioni, questa pittura rimanda a cose che il viaggio figurale novecentesco, ben conosce. Ma qui la musica è tutta sua, e il risultato non è di cose già viste. Infatti nelle incerte more della pittura attuale, quanti artisti non hanno scelto una semplice, unica e intatta, superficie monocromatica, senza altri segni, per dire che quella è opera compiuta nella sua squillante assenza? E quanto al progredire e costruire per tasselli, tessere musive di colore, non si ritrova sovente in opere celebrate, fino alle estrose e secessioniste invenzioni di Klimt?
Ma Asmone muove i suoi arnesi figurali secondo la coerenza di un’idea. I suoi fondali monocromi non sono solo uno scenario, ma già si coniugano con quanto sopra vi sarà costruito, sono un paesaggio di colore cantante. E le sue tessere mosaiche, che certo partono da quell’idea moderna che solo il molteplice riesce a dare la sostanza e la figura dell’unitario (si pensi al divisionismo e via parcellizzando), in realtà sono minuscoli specchi colorati che ora rifrangono uno smagliante riverbero di colore, ora suonano un pedale di dense profondità dove la luce finisce per spegnersi oscurata. Esse possiedono le suggestioni di un’idea costruttiva che si potrebbe ritrovare in un antico selciato romano o nelle celle di un alveare.
Sono punti di energia il cui volume è dato dal colore, sono le singole lettere di un alfabeto che non balbetta ma costruisce un suo discorso.
Asmone dunque è un colorista che costruisce, un pittore di scene mai puramente scenografiche, un dialettico pittore della passione. Con questo ultimo duplice carattere la sua pittura fa i conti. Osservando a lungo ogni suo quadro, specie di questi anni recenti, si coglie sottesa una lucida e invisibile trama di razionalità costruttiva, la messa in opera di un progetto coerente, un’asciutta necessità di sintesi. Eppure a muovere la spatola di Domenico è una forte passione dell’anima, un’energia cantante che si fa, o tende a farsi, inno alla forza. Nell’immobilità di questo musealismo pittorico c’è come un vento che sommuove, un invito, un avvio che appartengono alle ragioni e alle regioni dello spirito e dell’etica.
Nella confusione inetta di tante prove pittoriche contemporanee, la pittura di Asmone ha trovato un suo centro, un perno originale, che certo potrà in futuro avviare movenze inedite, arricchimenti, messaggi ancora più ricchi, ma, crediamo, resterà l’avvio sicuro e irrecusabile di un intendere e fare pittura, fuori da ogni pura decorazione, oltre ogni arzigogolo della mente e del pennello.