Potentino di origini baresi, Dino Ventura, classe 1962, muove i primi passi nell’arte, da autodidatta, a partire dal 1978. Forte, nelle sue opere — contraddistinte dall’accostamento di forti sezioni cromatiche abbinate a materiali poveri e preziosi (cartoni, sacchi, foglia d’oro, cere e bitume) e codificate da serie numeriche e scritture stencil —, risuona la lezione, o semplicemente un’inconscia rimembranza visuale, del Braque “sintetico”; dei manifesti di propaganda e delle opere avanguardiste del primo ventennio del ‘900 — Marinetti, Boccioni, El Lissitzky, Moholy-Nagy, Berlewi —, della neoavanguardista, ribelle, anarchica, critica e pesantemente intellettualistica poesia visiva degli anni ’50 e ’60 (anche se con una connotazione maggiormente pittorica in Ventura) — si pensi al Gruppo 70, a Isgrò, Pignotti, Spatola, Miccini, ecc. —; delle composizioni informali dell’americano Frank Josef Kline — si considerino opere come “Yellow, Orange e Purple” o “Henry H II c1959” —, della pittura segnica di Agostino Ferrari; e di una certa grafica pubblicitaria di design degli anni ’70 e ’80. L’agire poietico — dal greco «poiéo», nel senso sia di «creare» e «comporre», sia di «fare poesia» — di Ventura, lungi dall’essere sigillo estetico fine a se stesso, nasce da un’intima, ma allo stesso tempo anche politica e culturale, necessità di evidenziare un dato socio-antropologico in forte ascesa: la mancanza di comunicazione verbale fra gli individui, sempre più isolati, sempre più chiusi; e, con «Le parole non dette», progetto di 1000 opere sul quale sta lavorando negli ultimi anni, l’artista inserisce sulle proprie tele frasi “aperte” che il fruitore può completare o ricomporre, facendole sue, e delle cifre che codificano i messaggi riportati sui quadri e li rendono irripetibili.
Michele Citro