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Paolo Camporese

Ritorna alla lista Aggiunto il 22 set 2022

Arturo Martini uno scultore rivoluzionario

Arturo Martini uno scultore rivoluzionario.

Arturo Martini nasce a Treviso nell’agosto del 1889 in una famiglia di umili origini che all’epoca viveva nelle vicinanze del Duomo. L’infanzia è tormentata dagli insuccessi scolastici, tuttavia si trova immerso in un ambiente stimolante, la Treviso medioevale, che lo arricchisce visivamente. Gli affreschi di Sant’Orsola di Tomaso da Modena e tutta l’arte sacra delle chiese rappresentano l’humus su cui, Martini, svilupperà la propria poetica. Nel 1901 viene prosciolto da ogni obbligo scolastico e poco dopo comincia il suo apprendistato presso l’oreficeria Schiesari, in questa bottega Martini lavora a sbalzo e si cimenta in piccole fusioni. La sera inizia a frequentare i corsi di disegno e modellato tenuti da Giorgio Martini nella scuola d’arti e mestieri di Treviso. Il giovane in questo contesto sviluppa la passione per la scultura, trova la sua strada. Il primo corso si chiude con una mostra degli allievi e Martini viene menzionato in un articolo della Gazzetta di Treviso. Ultimata la scuola   comincia a ricevere piccole commissioni e frequenta lo studio dello scultore Carlini che gli insegna a “formare” cioè ad estrarre le forme dalla creta e a trasporle in gesso, un passaggio fondamentale per lo sviluppo delle grandi sculture dell’età matura. In questo periodo Martini è uno scultore ancora profondamente legato alla tradizione, tra i suoi lavori giovanili il busto del pittore Pinelli il Davide moderno e il poeta.

 Nel 1907 i suoi sforzi sono premiati con una borsa di studio della città di Treviso. Il premio gli consente di frequentare a Venezia lo studio dello scultore Urbano Nono. Nello stesso anno espone nella sua città 12 sculture alla prima mostra d’arte della città di Treviso. Due anni dopo sostenuto da due mecenati trevigiani l’imprenditore Gregorj e Cesare A. Levi, Martini si reca a Monaco. In questa sede lo scultore assorbe il clima secessionista. L’influsso di questa corrente artistica è evidente nei piccoli e grandi vasi che Martini produce per la manifattura ceramica Gregorj. Nello stesso tempo lavora ad una serie di sculture da portare in mostra. Egli stesso apre una galleria in Calmaggiore a Treviso. I lavori di questo periodo come “la maternità” e “l’ubriaco” sono di carattere espressionista-secessionista. Nel 1910 conosce il pittore Gino Rossi con il quale inizia le esposizioni di Cà Pesaro sotta la guida del critico d’arte Barbantini. Le mostre veneziane di Ca’ Pesaro si contrappongono alla biennale, in particolare contestano quella del 1912. Genera scandalo la scultura “fanciulla piena d’amore” esposta nel 1913 e le mostre di Ca’ Pesaro vengono sospese. Martini sperimenta così i vantaggi e gli svantaggi della notorietà e della critica divisa in blocchi contrapposti. Nel 1912 con l’amico Rossi esporrà a Parigi al salone d’autunno con Modigliani e De Chirico.

Scoppia la prima guerra mondiale e lo scultore si arruola e viene impiegato nelle retrovie a Vado Ligure, Bologna e Faenza. Nel museo della ceramica di Faenza sono conservati alcuni lavori di questo periodo. Terminata la guerra nel 19 si trasferisce Milano dove ritrova la critica d’arte Margherita Sarfatti conosciuta alle mostre di Ca’ Pesaro. In questo ambiente Martini viene sostenuto da due Mecenati Preda e Selvatico, prima in uno studio sul Lago di Como poi a Milano. Nel 1920 si sposa e partecipa nuovamente alle mostre di Cà Pesaro sospese nel 1913. Per Martini questo è un periodo fecondo: espone a Milano e la prefazione del catalogo è di Carlo Carrà, in questo modo è sancito il suo riconoscimento presso gli artisti del momento, viene da sé l’adesione al movimento Valori Plastici. Questo movimento ebbe un ruolo antimodernista richiamando all’ordine e alla tradizione e Martini è l’unico scultore del gruppo. Il sostegno economico a Milano viene a mancare e si trasferisce presso la famiglia della moglie a Vado Ligure.

 Il decennio successivo vede Martini impegnato verso lo sviluppo di un classicismo venato di arcaismo in cui si fondono reminiscenze etrusche e medioevali della città natale. In questo arco di tempo lo scultore lavora a piccole ceramiche che gli consentono il sostegno economico e sogna le opere monumentali. In effetti Martini, a quel tempo, ha di fronte il dilemma principale della scultura: la grande dimensione e la replicabilità e affronta il nodo con l’opera “la pisana”. Successivamente riesce modellare all’interno di grandi forni dell’ILVA di Vado Ligure figure di dimensioni notevoli come “Chiaro di Luna” e “Gare invernali”. Il materiale che usa è l’argilla semi refrattaria. L’argilla semi refrattaria, una volta cotta, è un materiale resistente alle intemperie e Martini lo lavora con la tecnica a lucignolo. Di questo periodo sono inoltre da ricordare “la venere dei porti” “il pastore” e “l’aviatore”. Inventa inoltre i “teatrini” come “donna alla finestra”, ripresi poi da altri scultori novecentisti come Fontana e Melotti. I grandi lavori gli consentono di vincere il primo premio alla quadriennale di Roma del 1931 e questo gli apre le porte della Biennale di Venezia del 1932. Durante il decennio 30-40 ritorna alla piccola scultura con il ciclo eponimo che comprende: “il centometrista”, “Ulisse”, “Amazzoni spaventate” e “la morte dell’amazzone”, “Il ratto delle sabine” e “il Laocoonte”. Durante il secondo conflitto mondiale gli viene affidata la cattedra di scultura presso l’accademia di belle arti di Venezia.

L’inizio del secondo conflitto mondiale coincide con l’ultimo momento di metamorfosi nel quale lo scultore si dedica ai grandi capolavori in marmo. Due di questi sono il “Palinuro” e il “Tito Livio” ubicati presso l’Università degli studi di Padova. Gli anni quaranta vedono un Martini maturo e affermato, si è messo alla prova con la dimensione monumentale, ha lavorato con gli architetti più importanti del momento, le sue opere sono nei maggiori musei italiani, lo si trova nelle collezioni più prestigiose e ha sperimentato tutti i materiali. Tuttavia è inquieto e vede nelle sue opere un limite, i suoi lavori cominciano a deformarsi e scomporsi come in “atmosfera di una testa”, “scomposizione di toro” o “cavallo allo steccato”. Da questa crisi si origina il libro “La scultura lingua morta”, nel quale Martini denuncia i limiti decrepiti della scultura auspicando un bagno purificatore che permetta di riprendere con un nuovo slancio. Il libro è il suo testamento spirituale nel quale Martini avverte i limiti della scultura ma, probabilmente anche i propri, di lì a poco a Milano, il 22 marzo del 1947, colpito da un malore muore.

Arturo Martini è stato uno scultore eclettico che ha rivoluzionato continuamente il suo lavoro con una ricerca continua e lo ha fatto ponendosi sempre a fianco delle avanguardie del momento e frequentando artisti più giovani. Si è purificato più volte fino a negare la scultura. Non sappiamo a quali esiti avrebbe portato questa sua analisi, il tempo non gli ha dato modo di mostrarcelo. Ciononostante la sua influenza è evidente negli scultori della seconda parte del novecento come Viani, Tramontin, Fontana e Melotti.

                                                                                    Paolo Camporese

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